Secondo voi, come risponderebbe un bambino alla domanda “Ti piace di più giocare o studiare”? Assodato che la stragrande maggioranza preferisce giocare, bisogna trovare il modo per farli studiare. E, come si dice, se non puoi batterli, alleati con loro rendendo lo studio più simile a un gioco.
Se chiedeste a un bambino di 8, 10 o 12 anni come passa le sue giornate, molto probabilmente vi risponderebbe che la mattina va a scuola e il pomeriggio – fatti i compiti – va a giocare. E se gli chiedeste cosa gli piace di più fare, salvo rare eccezioni, vi risponderebbe che gli piace più giocare che studiare. Ora, prima di iniziare a mugugnare sulla scarsa propensione all’impegno e al sacrificio dei ragazzi d’oggi, sul dilagante lassismo eccetera eccetera, pensateci un attimo: voi, alla loro età, preferivate studiare la storia dell’antica Roma o andare a giocare a pallone con gli amici? E i vostri nonni? E i vostri avi? Potete tornare indietro nel tempo quanto volete, ma è così da sempre: il bambino preferisce il gioco. Ma perché così deve essere: per l’individuo che si sta formando, il gioco è la simulazione di quello che sarà la sua vita. E non solo per l’uomo, anche per i cuccioli di animali è lo stesso. Il gioco serve per acquisire una serie di “abilità” sia di tipo “pratico” (risolvere problemi, superare ostacoli, usare strumenti), sia di tipo “sociale” (inserirsi e imparare a convivere in un gruppo di individui). Ovvio, quindi, che trovino il gioco più piacevole rispetto all’istruzione “codificata” che ricevono a scuola: il gioco dà loro una soddisfazione immediata, che le cose imparate a scuola non gli possono dare. A questo punto, viene spontaneo chiedersi: ma se il gioco è il metodo scelto dalla natura per formare i piccoli alla vita adulta, perché non assecondare questo metodo naturale di apprendimento anche all’interno della scuola?
Imparare divertendosi: è da questo tipo di ragionamenti che ha cominciato a prendere piede il concetto di “gamification”, ovvero del rendere l’apprendimento più simile a un gioco al fine di trasformarlo in qualcosa che possa piacere di più ai bambini. Anzi, non solo ai bambini, visto che il gioco, soprattutto con l’avvento delle tecnologie digitali e dei videogiochi, coinvolge attivamente fasce sempre più ampie della popolazione, anche in età insospettabili.
Secondo il rapporto AESVI del 2018, il 57% della popolazione di età compresa tra i 16 e i 64 anni, corrispondente a circa 17 milioni di persone, ha giocato ai videogiochi negli ultimi 12 mesi. Di questi, il 59% sono uomini e il 41% donne. Guardando invece al profilo dei consumatori per fasce di età, si nota una concentrazione significativa di donne (13%) nella fascia compresa tra i 25 e i 34 anni. Sul versante maschile, invece, si nota una maggiore distribuzione di giocatori nelle fasce d’età 25-34 (15%), 35-44 (13%) e 45-54 anni (12%). Il rapporto AESVI purtroppo monitora solo la popolazione sopra i 16 anni, ma è abbastanza logico ritenere che l’interesse verso i videogiochi nella fascia di età sotto i 16 anni sia ancora superiore. Chiunque sia a contatto con un bambino se ne sarà reso conto senza bisogno di scartabellare le statistiche. In compenso, il rapporto AESVI ci suggerisce una cosa cui forse non avevamo pensato: mettere la gamification all’interno delle proprie strategie didattiche potrebbe essere utile non solo per la scuola primaria e secondaria di primo grado, ma anche per la secondaria di secondo grado. Tutto sta, ovviamente, nel trovare gli strumenti giusti.
Perchè la gamification a scuola?
Tutto cambia perché nulla cambi? Ci sono molti modi di intendere la gamification a scuola e, parallelamente, di introdurla nella dinamica dell’apprendimento.
Tagliando l’argomento con l’accetta, potremmo dividere gli approcci in due grandi famiglie.
Il primo approccio è quello che prevede di selezionare dei giochi realizzati con l’intento di insegnare delle cose e usarli per trasmettere parte delle conoscenze previste dal programma di studi. Esistono decine di videogiochi studiati per insegnare la matematica, le lingue e così via. Spesso sono organizzati come tipici videogiochi a percorso in cui gli ostacoli sono rappresentati da quiz, problemi matematici, frasi da completare, e via di questo passo. Questo tipo di strumenti in pratica va ad affiancare le tecniche di insegnamento tradizionali, in particolare la lezione frontale, per rendere l’insegnamento più vario e coinvolgente.
Il secondo approccio è quello che consiste nel trasformare lo stesso anno scolastico in una sorta di grande gioco. In questo secondo approccio, si creano dei meccanismi premiali, con punteggi per i compiti, badge di merito, regali e così via. Il gioco consiste nell’accumulare più punti e riconoscimenti per arrivare a vincere la classifica a fine anno, e per salire in classifica bisogna imparare, quindi lo scopo è raggiunto sia per lo studente che per l’insegnante. Questo approccio introduce fra l’altro una certa competitività, che può essere positiva visto il mondo che aspetta i ragazzi dopo la scuola, ma nelle forme più evolute di questo approccio si tende a mitigarla introducendo correttivi che facciano risaltare il valore della cooperazione con i compagni, per abituare il ragazzo anche al lavoro di gruppo. Questo secondo approccio apparentemente sembrerebbe più “olistico” e integrato, ma… c’è un ma. Come ha osservato Paolo Fasce in un suo articolo apparso su “Educazione Aperta” circa un anno fa, “La gamification è intesa come un meccanismo che mette insieme punti, livelli, ricompense, distintivi, doni. Si tratta esattamente della struttura naturale della scuola che assegna voti (punti), promozione a classi successive (livelli), gratificazioni di fronte al gruppo classe (ricompense), pagelle (distintivi/badge) e doni (spesso dei genitori, ma anche borse di studio, ai meritevoli)”. Insomma, questo tipo di approccio non sarebbe una vera e propria gamification, o se lo è, lo è nel senso deteriore del termine, perché di fatto cambia la terminologia, ma non il modello didattico sotteso, che rimane lo stesso in uso in Italia fin dal ‘900.
In attesa di disporre di nuovi e meravigliosi programmi didattici, altamente coinvolgenti su tutte le materie e gestiti in modalità interdisciplinare, è comunque possibile cominciare a inserire elementi di gamification didattica nella routine scolastica di tutti i giorni. L’obiettivo non sarà di trasformare l’anno scolastico in una grande gara, ma di inserire dei momenti di gioco all’interno della didattica delle singole discipline, con l’intento di sfruttare la capacità di coinvolgimento del gioco rispetto alla didattica tradizionale.
Tenendo presente che il “nemico” non è la lezione frontale in sé, ma la noia, che colpisce molto facilmente i ragazzi (soprattutto i più giovani). Già diversi anni fa alcuni studiosi statunitensi avevano osservato che l’attention span di un bambino era sceso a pochi minuti e, precisamente, al tempo tipico che intercorreva fra due intervalli pubblicitari nei cartoni che guardavano per ore in TV. In Italia il fenomeno è arrivato più tardi, ma ormai è presente anche qui. E se per le prossime generazioni potremo trovare un rimedio (evitando in primis di parcheggiare i bimbi davanti alla TV per pomeriggi interi), per quelle attuali ormai il problema c’è e bisogna aggirarlo. Introdurre il concetto di gamification e quindi di continui stimoli sotto forma di cambiamenti della modalità della lezione è una delle possibilità.
Un’altra possibilità è sostituire certi strumenti, visti dai ragazzi come vecchi e quindi noiosi (un esempio: la tradizionale lavagna nera con i gessetti), con apparati con cui hanno più familiarità, come video, tablet e smartphone e magari con apparecchi che li attraggano maggiormente perché riuniscono l’essere digitali (quindi conformi a tutta una serie di modalità di funzionamento e interazione che il ragazzo conosce e gradisce) con caratteristiche non possedute dagli apparecchi che i ragazzi hanno a casa (basti pensare alla LIM o agli schermi touch di grandi dimensioni). L’introduzione di elementi di gamification e l’utilizzo di nuovi strumenti digitali sono insomma alcuni degli strumenti più interessanti di cui gli insegnanti possano disporre per diversificare le tecniche didattiche, senza dimenticare mai che il fine ultimo di tutto questo è migliorare l’esperienza globale di apprendimento vissuta dai ragazzi nella scuola.